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ROMANZI PIENI DI VITA    di Tim Parks

Review a cura di Carlo Boracchi...



Vi siete mai innamorati di uno scrittore? Non dico di uno in carne ed ossa, ovviamente, ma di un autore in quanto tale.

Vi siete mai chiesti cosa vi conquistasse così tanto, che cosa rendesse possibile quell'alchimia automatica tra la sua scrittura e le vostre “corde dell'animo”?

Personalmente l'ho fatto tante volte, talvolta chiedendomi anche, in modo similare, cosa ci trovassero invece altri amici in scrittori che personalmente sopportavo appena, con i quali, per dirla con Pennac, riuscivo solo ad arrogarmi il diritto di piantare il libo a metà.

Come si fa ad amare Proust e non Hemingway?

Quale masochismo ci spinge ad approcciare Joyce?

Come si può non amare Goethe o Calvino?

Domande che ogni amante della lettura si è posto prima o poi “in carriera”, e che provano a trovare una risposta interessante in “Romanzi pieni di vita”, di Tim Parks, nel quale l'autore rilegge il rapporto scrittore-opera-lettore attraverso la teoria delle polarità semantiche familiari di Valeria Ugazio nel suo libro “Storie permesse, storie proibite”.


L'idea di Parks è cheil libro, lungi dall'essere un canale a senso unico dallo scrittore al lettore, rappresenti un “luogo di conversazione” in cui l'autore dialoga con chi lo legge, non tanto (o non solo) tramite la storia, quanto attraverso lo stile, l'intreccio, il clima emotivo che va creando mentre costruisce la vicenda.

Ciò che determina il modo in cui tutto questo viene costruito è la storia personale e familiare dello scrittore, letta attraverso la semantica prevalente del suo contesto di origine (cioè l’insieme di significati attraverso cui la sua famiglia organizza i propri comportamenti: vincente/perdente, buono/cattivo, dipendente/indipendente, incluso/escluso...) e dalla posizione individuale dello scrittore all'interno di tale polarità.

Ripercorrendo la biografia di alcuni massimi scrittori, Parks evidenzia come le semantiche salienti tipiche dei loro contesti familiari si riflettano nello stile caratteristico di ciascun autore e del rapporto che questo tende ad instaurare con i suoi lettori.

La possibilità per il pubblico di appassionarsi a questo autore dipenderebbe dalla compatibilità del nostro positioning (cioè dalla nostra posizione individuale, rispetto a quel determinato campo semantico e valoriale, all'interno del nostro contesto familiare) con quello proposto.


Tanto per fare un esempio su cui Parks torna più volte nel testo, la prosa ardua e virtuosistica fino all'incomprensibilità di Joyce rispecchierebbe un modo di porsi in posizione superiore (vincente, impositiva) rispetto al lettore, a cui viene chiesto di adattarsi unilateralmente allo scrittore.

La medesima aspettativa sarebbe stata una costante relazionale anche della vita dello scrittore irlandese, solito a richiedere favori e prestiti poi mai risarciti, in virtù del fatto di essere a priori un vincente, colui che teneva le redini del rapporto, quello che poteva solo essere inseguito, essendo di per sé naturalmente un genio. Dai suoi lettori Joyce si attende la medesima dedizione: la “conversazione” con un autore di questo tipo, la possibilità cioè di poterlo amare o meno, diventa possibile solo a patto di accettare di porsi in modo subalterno, adeguandosi al suo stile.

Sulla stessa scia ed in modo più approfondito Parks analizza gli stili narrativi di Pavese, Hardy, Lawrence, Beckett, Morante e Moravia, autori con storie personali diverse, ma soprattutto con semantiche o positioning diversi che ne determinano il modo con cui il pubblico tende a vederlo e a rapportarsi con lui: popolare o elitario, condiviso o rifiutato, letto o rappresentato, ecc.


L'idea più affascinante di questo breve testo è racchiusa nella nuova visione del rapporto tra scrittore e pubblico come una corrispondenza di sensi, una compatibilità di storie possibili attraverso le quali comporsi.

Incontrarsi e conversare dalle pagine di un libro, tra reciproche storie permesse.

 

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